Natale piovoso, Natale pensoso …

Dicevamo: giorni di Passione. Una tempesta di venti provenienti dalla crisi ha portato accumuli di persone nei negozi, tracimazione di supermercati, abbattimento di redditi familiari, innalzamento dei livelli di glucosio, trigliceridi, colesterolo, lagnanze di commercianti onesti e facce toste di evasori fiscali …  Mi chiedo se c’è chi, come me, vede le Feste di Natale come mille luminarie e cavallini saltellanti di una giostra che, alla fine del tempo pagato, si ferma e i bambini sono costretti a scendere controvoglia, spegnendo il sorriso, con gli occhi pieni di lacrime … La giostra illude, regala pochi attimi di gioia e poi, bruscamente, i piedini toccano terra: si torna alla realtà, alla quotidianità …

Gli Auguri, una volta sussurrati in un abbraccio o una stretta di mano, ora si moltiplicano oltremodo attraverso le nuove tecnologie di Facebook, Twitter, Whatsapp. Ho contato che lo stesso amico di un amico di un amico ha scritto “Buon Natale” quarantacinque volte: quasi quasi mi ha fatto prendere quelle parole per una presa in giro … Nel passato, c’era il piacere di scegliere un biglietto illustrato con temi religiosi (la Sacra Famiglia nella capanna, gli Angioletti, i Magi che portano doni …), oppure consumistici (Babbo Natale sulla slitta trainata dalle renne, l’Albero ricco d’addobbi, pacchi di tante dimensioni infiocchettati con vari colori….). C’era il momento delicato di trovare una penna che scriveva ad inchiostro fluido e non a intermittenza … C’era il pensare alla frase bella, la frase giusta, quella “d’effetto” che mostrava “l’affetto” per la persona cui era dedicata … Oggi, si trovano immagini del Natale di tutto il mondo su internet e l’unica cosa originale da fare è il copia e incolla sui social network, inserendo anche frasi scritte  da uno qualsiasi e dedicate a chissà chi. A me, nel freddo padano, è arrivato su Facebook un Babbo Natale in costume da bagno circondato da donnine seminude in spiaggia e sulla sabbia c’era la scritta “Buone Feste”: un mio amico calabrese, per non far sforzi di pensiero, ha copiato un biglietto multimediale del Natale in Australia…

Le abbuffate tradizionali natalizie sono lavori forzati per lo stomaco. Né brioschi o diger selz, né boccali di acqua, limone e bicarbonato, riescono a sturare i condotti digestivi. Nessun intervento, se non un lento processo naturale, può riportare alla normalità e per dignità umana, non possiamo nemmeno usare lo sturalavandini … Abituati da anni a mangiare senza gusto, passando dai self service o fast food,  al “primo e contorno a mezzogiorno” e “solo un secondo di sera”, nelle Feste ci sforziamo a casa di chi ci ospita oppure con chi abbiamo invitato, a mangiare dodici antipasti scelti tra i più pesanti e unti esistenti, primi vari di pasta imbottita con tutto-di-più, secondi di carne ripiena d’insaccati ripieni di miscugli vari, consolanti “insalate di rinforzo” e fritture di pesce, frutta secca e frutta fresca extraeuropea o esotica ( non c’è più la profumata frutta nel nostro Sud ??? …) , struffoli, roccocò, mustaccioli, cassatine e cannoli, pastarelle di mandorla e, immancabile, litigando su quale sia il più buono, il fettone di panettone o pandoro …

Normalmente, mi diceva tanti anni fa un simpatico scozzese, un pranzo è suddiviso in cinque parti, e fateci caso se non è proprio così … Esse sono denominate: “ansiosa” in attesa delle prime portate,  “gioiosa” ricordando episodi curiosi e bei momenti trascorsi insieme, “verbosa” mangiando si parla e racconta e ci si confronta, “irosa” il confronto diventa quasi scontro, tutti parlano ad alta voce, si sovrappongono  i discorsi e si seguono due o tre ragionamenti contemporaneamente, senza capirci più nulla ma cercando di imporre il proprio pensiero … L’ultima fase è la “comatosa“: la fine del pasto trova i commensali quasi sfiniti, strapieni di cibo e beveraggi di varia gradazione e si mormora qualcosa, esalando affannosi respiri e sperando nel momento della salvezza, quando la padrona di casa chiede ad altissima voce: “Volete un caffè?”

                                                              dal nostro Presepe

Il momento dello scambio dei doni è quello che mi ha sempre fatto più tremare: nell’incertezza di aver scelto il regalo giusto, utile per gli altri e nella certezza di ricevere il mio annuale libro di Forattini da parte della mia dolcissima consorte, a cui mormoro il solito “Grazie, non me lo aspettavo” mentre lei apre “con sorpresa” il pacchetto del costoso profumo che per mille volte, nei giorni precedenti, mi ha detto che stava per finire … Classico, poi, il timore che i figli mi facciano scovare nel fondo di una scatola avvolta in molteplici fogli colorati e duemila nastrini da snodare, una novità che mi obblighi a cose che, per età o per conoscenza o per pigrizia o per incomprensione linguistica, non sarei mai capace di fare … mentre mi abbracciano dicendo “Grazie, Papy, è proprio ciò che mi serviva!”  e piegano l’assegno che ho messo con cura “nascosto ma in modo che si vedesse”, in una busta colorata. E allora, nell’attimo di questo obbligatorio rito penso, parafrasando, ai famosi versi  di Totò,  e mi regalo un po’ di distrazione:

“Ogni anno, il 25 dicembre, c’è l’ usanza,

per i parenti andare al tavoliere.

Ognuno fa crescere la panza;

ognuno un pacco deve tenere.

Ogni anno, puntualmente, in questo giorno,

di questa festa e fissa concorrenza,

anch’io ci sono e con doni e scorno,

aspetto l’apertura con prudenza …”

 

Il momento dei saluti, trova tutti distrutti: si fa fatica ad alzarsi, a porgere le guance per un bacio, ad alzar le braccia per una calorosa stretta e … “Buonanotte”, “Al prossimo Natale” e l’atteso classico “Stai bene … Cu ‘a bona salute!”, manco se ogni anno io pensassi all’autoeliminazione “antinatalizia” … 

Scusate, dimenticavo … Agli amici e lettori più curiosi che chiederanno cosa ho avuto regalato, rispondo: “Il piacere di tanto affetto e tanta compagnia. Grazie, Natale !”

Quest’anno, niente capitone …

Qualche sera fa, dicevo ad amici che quest’anno non ho gustato il capitone. Non che questo strano pesce mi piaccia così tanto, ma il gusto è legato alla tradizione, al Natale, alle feste di fine anno e all’arrivo di un anno nuovo che sarà, mi hanno sempre detto, migliore del precedente.

E poi, niente minestra maritata o pizza con le scarole, olive di Gaeta e capperi o il baccalà fritto o l’insalata di rinforzo con cavolfiori, peperoni forti, olive verdi e nere, sottaceti … E niente pizze fritte con ricotta, salame, mozzarella o i roccocò bagnati nel vermùt, le cassatine, il cotechino con le lenticchie che “se ne mangi tante all’ultimo dell’Anno, ti portano tanti soldi!” … e il panettone …

Insomma niente più per tradizione …

Che ti frega? – mi è stato detto – Non ti sei perso niente, specie se non ne vai matto …”. 

Non è così. Già a Carnevale mia moglie non ha fatto la “lasagna”.

“Che ti frega – mi è stato ripetuto – Se qualcosa ti piace, la puoi  mangiare in qualsiasi giorno e poi ormai trovi tutto al supermercato …”.

Ma la “lasagna”, quella napoletana col ragù, le polpettine fritte e poi messe nel sugo, la ricotta, la mozzarella, i piselli, il salame … un po’ bruciacchiata sopra e ai lati e morbida all’interno, si mangia per  tradizione ed è più buona solo a Carnevale.

Ed è tradizione la zuppa forte del giovedì santo e il tortano imbottito, la pastiera, il capretto con le patate dei Pasqua e la pasta al forno al pic nic della Pasquetta …

“Ma, insomma, cosa significa, per te, il termine <tradizione>?” mi è stato chiesto.

La <tradizione> è un insieme di usi, costumi, modi di pensare che viene trasmesso e mantenuto nel tempo: così dicono i dizionari.

Per me, è diverso: la <tradizione> è non solo mangiare o fare qualcosa o festeggiare o pensare nel tempo che scorre, ma è la <testimonianza> che, come nel passato, in questo presente, nel giorno giusto, ci sono ancora, esisto, parlo, rido, piango, amo, odio, gioisco, soffro, sogno, mi esalto, mi abbatto, mi sento su, cado giù, corro in un prato, guardo il mare, mi perdo nel cielo. Ci sono ancora.

Non mangiare in quelle occasioni il capitone, che, ripeto, non amo come non amo la pastiera o i cetrioli nell’insalata di rinforzo o le cassatine portatrici di glucosio o il grasso del cotechino e l’indigesto panettone,  può significare aver perso un treno senza sapere se ne passa un altro con la stessa classe e la stessa destinazione …

“Dici sciocchezze! – mi si vuol convincere – Questi treni li puoi prendere, nonostante la crisi, in qualsiasi sosta a ristorante o al Centro Commerciale … Non devi più aspettare Natale prossimo o Carnevale o Pasqua … Fortunatamente viviamo negli anni Duemila e il progresso ha fatto e fa miracoli!”

Ho raccontato altre volte che da piccolo non volevo andare sulle giostre perché poi il “giro finisce” e non ti rimane più quell’ illusione di volare. Adesso credo di aver sbagliato: mi son perso la degustazione di attimi di gioia, come facevano tanti bambini. E, ora, sulle giostre non ci posso più andare …

Ricordo una confessione che feci ad un mio carissimo amico: da piccolo napoletano, io non mi sono mai appeso al tram per prendermi un passaggio gratis …

Lui sorrise e mi disse: “Non sai il piacere che ti sei perso!”.

Quando, negli anni, ho continuato a non fare certe cose o perché non le ritenevo corrette o perché sono vigliacco o poco furbo o poco “italiano”, lui mi diceva: “Ah, già, tu sei quello che non si è mai appeso al tram!”.

Il Presepe si fa per Natale, non si fa a Ferragosto: nessuno impedirebbe di farlo, ma non avrebbe senso perché il Presepe ha un suo significato legato alla storia, ai personaggi … Per lo stesso motivo non regalo l’Uovo di Pasqua nel giorno della Befana o la calza col carbone per la Festa della Repubblica …

Ecco perché il fatto di non aver mangiato il capitone fritto a Natale mi rattrista: non so se l’anno prossimo potrò addentarlo così oleoso, bollente e ricco di grassi a Natale, come vuole la <tradizione>. 

Ormai non so se potrò mai più “appendermi al tram” …